Racconto breve di Gipo Farassino: BARBA PIERO

Barba Piero, classe 1903 una vita intera trascorsa alla Fiat. Forse, per il suo orizzonte ha ricevuto anche tanto, ma indubbiamente lui e quelli come lui, sono stati quella “forza lavoro” che ha portato la Fiat ad essere una potenza internazionale nel mondo dell’automobile.

Di famiglia povera, a nove anni iniziò a lavorare in una piccola boita che fabbricava pentole e contenitori vari in rame ed apprese la nobile arte del magnin (calderaio); ma nel suo piccolo, Barba Piero guardava un po’ più lontano. A quel tempo la Fiat dopo aver incorporato e completamente assorbito, col trucco della valigia degli aumenti di capitale, gran parte delle fabbriche artigianali: la Diatto, Spa, Temperino, Veglia e altre, stava crescendo come un enorme fungo che nell’immaginifico di una classe operaia, senza sicurezze di continuità di lavoro né coperture di previdenza sociale, infortunio, cassa mutua e pensione, avrebbe steso la sua ombra protettiva su tutta la città, portando un cielo più sereno e una certa tranquillità per il futuro della Torino operaia. E così Barba Piero, compiuti i 14 anni entrò alla Fiat Grandi Motori sottoponendosi all’esame del “Capolavoro”.

Era, questo, un esame per saggiare le capacità dei nuovi arrivati al fine poterli destinare al reparto di competenza. Barba Piero scelse “la coda di rondine”. Consisteva nel prendere un tondino di ferro, serrarlo in una morsa e con il solo ausilio di una lima, un seghetto e un regolo misuratore, il famoso “Gnonio,” segare il tondino in due parti e costruire un maschio e una femmina che s’incastrassero perfettamente tra loro in modo da ricostruire il tondino. Barba Piero fu assunto al volo come operaio, dopo due mesi era operaio specializzato e dopo due anni capo squadra tubista.

Verso la fine degli anni trenta gli fu proposto di diventare Caporeparto, ma la condizione era di prendere la tessera del Partito Fascista. La sua risposta fu: “No, grazie, primo perché sono socialista da sempre, secondo perché siete come le picie, che chiedono i soldi prima.” Nel 45, subito dopo la fine della guerra, l’allora Commissione Interna gli fece la stessa offerta: Caporeparto, ma prendere la tessera del P.C.I. La risposta di Zio Piero fu la stessa che aveva dato ai fascisti. Dopo 25 anni di lavoro ricevette una cicca di metallo con tanto di stemma FIAT da mettere all’occhiello della giacca; dopo 40 anni un’altra medaglia, questa volta d’oro con su scritto Terra-Mare-Cielo, firmata da Valletta (ma conferita dalla Camera di Commercio) e un attestato di “operosità fedele alla Grandi Motori Fiat” e quando andò in pensione, dopo 44 anni d’anzianità effettiva, con un’unica assenza di 15 giorni per infortunio e due anni di servizio militare che a quel tempo non erano conteggiati come anzianità, per la verità gli anni furono 46, gli dettero il benservito con uno stemma Fiat, d’oro contornato di brillantini e un vitalizio di 18mila lire mensili che Valletta concedeva agli anziani.

Ma la medaglia che amava di più era una semplice medaglia di bronzo ricevuta come volontario portantino della Croce Verde. Barba Piero, una vita di lavoro e sacrifici, sempre a testa alta, sempre nella stessa Casa Popolare; andava a lavorare a piedi e a piedi tornava “un po’ di moto fa bene” e la sera rientrava a casa con dentro la pietanziera quattro razioni di minestra, per altro ottima, fornita da Mamma Fiat al prezzo politico di due lire per razione.

Mai posseduto una moto, tantomeno una macchina, l’unica concessione: una mitica Frejus, incredibilmente lucida, senza un graffio, che d’inverno appendeva a due ganci in una parete della stanza da letto e il suo unico investimento, una figlia con un diploma di Ragioniere in tasca. In un mondo di quaqquaraquà, ominicchi e uomini ‘e merda, capita ogni tanto, ma proprio tanto, d’incontrare per strada un uomo. Giù il cappello!

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Racconto breve di Gipo Farassino: IL TOSCANO

Fumo il sigaro non so neanch’io il perché; per la verità lo so benissimo.

Fumo il sigaro, ma non uno di quelli nobili: Coiba (li fuma Fidel Castro), i Montecristo, i Julieta & Romeo, per non parlare di quelli che fumava la buonanima di Churcill, che erano fabbricati espressamente per lui ed erano una specie di siluri lunghi 30 centimetri con un diametro di 5, sempre centimetri.

Fumo il Toscano, che è il sigaro più impestato, quello che provoca smorfie di disgusto alle ambientaliste d’assalto, anche al solo vederlo, anche se è spento: Basta la vista! Non ci crederete, ma io fumo il Toscano… Per non fumare! Bel paradosso.

Ho fumato la pipa per trent’anni e credetemi è il più bel fumare del mondo; ma un brutto giorno dopo un intervento chirurgico di sei ore per un by-pass all’aorta, Giancarlo che oltre che essere il mio cardiologo è anche e soprattutto un mio amico di quelli “sempre più cari, sempre più rari” mi ha guardato dritto negli occhi e mi ha chiesto: “Quanta voglia hai di crepare?” Rispondo: “Nessuna; non tanto per paura ma perché non ho tempo. Ho ancora qualche progetto da portare a termine.” “Allora devi smettere di fumare!” Ingenuamente dico: ”Guarda che io fumo la pipa, fa meno male…” Mi guarda serio: “Non pigliarmi per il culo. Non è la pipa che fa male, è il fumo!” Lapalissiano.

“Se proprio non puoi rinunciare ad essere Il Bastiancontrari che sei, prova con un mezzo toscano: sono sempre spenti, irrespirabili, ma tenendolo fra le labbra un tantino di nicotina la puoi assorbire dalle papille della lingua; potrebbe essere un buon compromesso” Aveva ragione. Il toscano, se inavvertitamente ne respiri una boccata ha lo stesso effetto di una legnata sul cranio, per questo è consigliabile veramente a tutti coloro che vogliono smettere di fumare, salvando la faccia. Della storia del Toscano conosco poco o niente, non ho mai letto libri, partecipato a conferenze e cose simili; anche perché non m’importa un fico secco. Un vulgato popolare fa risalire la nascita del Toscano ad una distrazione delle operaie delle Manifatture Tabacchi di Stato il leggendario Chinin: Per arrotolare in modo conveniente spezzature di tabacco in un’unica foglia che costituisce il prodotto finito, ovverosia il sigaro, foglie e spezzature venivano inumidite e dopo la fabbricazione erano poste ad asciugare su grandi tavole di legno.

Una notte un gran temporale, cadde su Torino e quasi allagò i locali di essiccazione delle Manifatture Tabacchi, causa i finestroni dimenticati aperti dalle maestranze. Il mattino seguente, constatato il disastro la Direzione decise di mandare al macero la quantità di sigari inzuppati d’acqua, ma le operaie, in segno di solidarietà si offersero di provvedere, esse stesse, allo sgombero portandosi via una borsata di sigari a testa, terminato il loro turno di lavoro. Quei sigari non furono, ovviamente, gettati nella spazzatura ma fatti asciugare su ogni superficie possibile e consumati dagli uomini della famiglia: dissero che erano ottimi; naturale, per uomini duri di norma operai, manovali, muratori, imbianchini avvezzi a sorseggiare grappa già dal mattino per contrastare il freddo di lavori all’aperto, le sigarette anche le più forti alle loro bocche parevano camomilla; respirare quei sigari, invece dava loro l’impressione d’ingoiare polvere da sparo, li tenevano svegli. Le donne in fabbrica riferirono i commenti entusiasti dei loro uomini, che parvero ai dirigenti una modesta ma attendibilissima indagine di mercato. Forse fu questo accidentale elemento che convinse il Monopolio di Stato a mercizzare il Toscano, dopo un’accurata, abbondante bagnatura e conseguente essiccatura.

Se la storia non è questa, ribadisco che non m’importa un fico secco. Mi riaccendo il mio spento mozzicone di Toscano e me ne sbatto di tutto e di tutti.

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